domenica 28 febbraio 2010

L'interpretese

Per l’esame di italiano in genere impariamo che esiste una certa varietà di registri linguistici, di idioletti, di lingue settoriali e di lingue speciali. Nessuno però parla mai di un fenomeno particolare, originale e tipico della SSLMIT: l’interpretese.
Studiando interpretazione si sviluppa un linguaggio che non può essere definito settoriale, ma piuttosto “professionale”, nel senso che appartiene a una precisa professione, quella dell’interprete (o forse quella del would-be interpreter). Ci sono varie sfaccettature: l’intonazione è la prima. Si distingue una persona che sta facendo esercizio di interpretazione a distanza di svariati metri: avrà una cadenza innaturale, la maggior parte delle frasi rimarrà in sospeso (non si può mai sapere se non devi aggiungere ancora qualcosa, per cui è sempre meglio lasciare la frase “aperta”), creando un effetto cantilenante e spesso fastidioso per chi ascolta. Non voglio dire che tutti parlano così, ma è un fenomeno piuttosto frequente (e io non ne sono certo esente). Poi c’è il lessico: nella continua smania di parlare bene, sappiamo alla perfezione quale verbo accompagna quale sostantivo, per cui anche in una banalissima conversazione con gente estranea diremo “porre una domanda”, perché il verbo “fare” è troppo comune e poi “non suona bene”.
Ricordiamo correzioni di interpretazioni che suonavano più o meno così: “Ma signorina, non mi dica ‘la soluzione adatta’, mi dica ‘appropriata’”. Allora è ovvio che diventiamo tutti un po’ paranoici, che cerchiamo sempre la parola migliore, la più appropriata appunto. Ma forse quando andiamo a comprare pane e latte potremmo anche ricordarci che stiamo comunicando con dei comuni mortali che ci capiranno anche se diciamo “andare a mangiare” e non “recarsi a colazione”.
Ognuno di noi poi si affeziona a certe parole, i cosiddetti jolly che mettiamo ovunque nelle nostre interpretazioni, vuoi perché sono parole passepartout, vuoi perché siamo convinti di fare colpo con un determinato vocabolo (salvo poi usarlo a sproposito), vuoi perché la parola ci piace e basta. Un fenomeno molto interessante: il jolly non è mai di una persona sola, ma viene lasciato in eredità da chi ha già passato gli esami ai compagni di sventura.
Oltre ai jolly personali ci sono le preferenze dei professori: anche se “refugees” è tradotto da tutti i giornali con “rifugiati”, ai nostri prof non piace perché è un calco, si dice “profughi”. “Environmental protection” non è la “protezione”, ma la “tutela ambientale”. Nessun problema, basta solo ricordarsi che a volte prof diversi preferiscono traduzioni diverse per la stessa parola, in fondo l’interprete deve essere flessibile e avere una buona memoria, no? Questo dovrebbe entrare a far parte del bagaglio di conoscenze immagazzinate nella memoria a lungo termine. Ma i traduttori non sono affatto più fortunati: ci sono professori che correggono le versioni date per buone da altri prof e ti dicono che se l’autore tedesco ha messo una virgola proprio lì, allora la devi mettere anche tu (senza tenere in considerazione che le regole di punteggiatura tedesca sono molto diverse da quelle italiane). E allora si parla di “casa pittata di fresco” e non “imbiancata”, di “verdaiolo” e non di “fruttivendolo”, perché i termini da noi proposti non sono coevi.

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